Sarebbe stato decisamente preferibile non fosse così, ma è impossibile non aprire questa nostra direzione, la prima dopo la pausa estiva, e soprattutto la prima di una lunga stagione più che mai densa di appuntamenti e di impegni per tutti noi, senza guardare all’evolversi drammatico dello scenario internazionale.
Non c’è analista, non c’è osservatore, che non si dica preoccupato e al tempo stesso incapace, se serio, di fare previsioni certe.
Tutto sembra precipitare in una spirale sempre più pericolosa e imprevedibile.
Tutto sembra diventare possibile, compreso lo scenario di una guerra totale in Medio Oriente, con il pieno coinvolgimento dell’Iran, che dopo l’uccisione del leader di Hezbollah in Libano da parte dell’Intelligence israeliana e i missili iraniani su Tel Aviv non si può più escludere.
Di certo, come ha dovuto ammettere in modo sconsolato il Segretario di Stato americano Blinken, le prospettive di pace – verso l’unica soluzione politica possibile, quella “due popoli, due Stati” – si sono davvero allontanate molto.
Sta di fatto che la prima urgenza, in questo momento, è diventata quella di evitare il peggio, di fare in modo che l’incendio non si estenda ulteriormente, con esiti potenzialmente catastrofici.
Anche perché contemporaneamente a Gaza, colpita in modo tragico dalla reazione sproporzionata di Israele, la situazione resta quella che conosciamo e il fronte nello Yemen con gli Houthi è più che mai aperto. Anche da qui, oggi, diciamo basta ai bombardamenti di Netanyahu e ai missili di Hezbollah. Deve cessare il fuoco a Gaza e in Libano per preservare la popolazione, liberare gli ostaggi per riaffermare il rispetto delle risoluzioni ONU, della legalità internazionale per ristabilire la sicurezza e la piena operatività della missione UNIFIL.
E il conflitto in Ucraina continua a prolungarsi, senza che un vero percorso di pace si riesca ad intravedere e con Putin, anzi, che richiama la minaccia nucleare dicendosi “pronto ad usare l’atomica”.
Proprio per questo, come il Partito Democratico ha chiesto da tempo in ogni sede, la necessità resta sempre la stessa: un grande sforzo diplomatico dell’Unione Europea e del Governo italiano per far sì che l’aggressione russa si fermi, per ottenere il cessate il fuoco e aprire la strada a un negoziato che dovrà avere come risultato una pace giusta e duratura.
Quella da perseguire con lo spirito contenuto nelle parole pronunciate ancora pochi giorni fa a Berlino dal Presidente Mattarella, che ha esortato “alla ricerca di una conclusione a questa sconsiderata avventura bellica iniziata dalla Russia contro l’Ucraina nella speranza che si possano trovare spiragli di pace”.
Aggiungendo: “ma la pace non vuol dire sottomissione e abbandono dei principi di dignità di ogni Stato e del diritto internazionale. Né sottomissione alla prepotenza di chi pensa di affermarsi con l’uso delle armi”
Bisogna intensificare gli sforzi, dunque.
Nonostante il momento sia così terribilmente complesso.
Proprio perché il momento è così terribilmente complesso.
Sapendo che un primo problema è rappresentato dal fatto che sul piano dell’impegno diplomatico, la voce dell’Europa è stata e continua ad essere troppo debole.
Dobbiamo credere e contribuire a fare in modo, allora, che questa legislatura europea appena iniziata sia davvero “costituente”, affinché si riesca a procedere verso una piena integrazione del progetto europeo, per una Europa unita e forte sulla scena globale, per una vera sovranità europea.
Paradossalmente proprio la maggiore debolezza del tradizionale motore franco-tedesco potrebbe consentire di fare passi in avanti, dando più peso al ruolo della Commissione: mai Francia e Germania sono state contemporaneamente in crisi dal punto di vista politico ed economico e quindi meno capaci di far pesare i propri interessi a scapito di quelli comuni.
Può essere il momento giusto, la fase storica più opportuna.
Tra le condizioni, però, c’è la determinazione che la Commissione deve avere di lavorare nella direzione indicata dal Rapporto Draghi sulla competitività.
Rapporto che per molti versi è uno spaccato impietoso della situazione economica in Europa.
Mi soffermo solo su alcune cifre, che parlano anche a noi, ai nostri comparti produttivi, come Paese e come Regione.
Il divario di crescita tra Stati Uniti ed Unione europea, sulla base dei prezzi del 2015, è passato dal 15% nel 2002 al 30% nel 2023. La quota di settori nei quali la Cina compete direttamente con la UE è salita dal 25% nel 2002 al 40% oggi. Infine, sulle 50 più importanti società tecnologiche mondiali, solo quattro sono europee.
Da qui le esortazioni più che condivisibili dello stesso Draghi a ridurre il numero delle scelte che vengono prese all’unanimità, ad aprire la porta a nuove cooperazioni rafforzate e a promuovere debito in comune, per procedere in modo comune soprattutto su tre fronti: innovazione, energia e sicurezza.
Crescere e diventare più produttivi è l’unico modo per preservare i nostri valori, i valori che sono alla base del processo di integrazione e del nostro essere europei, di equità e inclusione sociale.
Anche da qui passa la possibilità di rilanciare l’Europa come attore sulla scena globale e la speranza di avere un ruolo nella risoluzione delle crisi e delle guerre in corso.
Un secondo problema è l’esito delle elezioni americane.
Un esito che resta incerto, nonostante la candidatura di Kamala Harris abbia riaperto l’esito della partita e restituito speranza e possibilità di evitare la sciagura di un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca.
Sta di fatto che tra questa incertezza che durerà ancora per un mese e la presidenza Biden ormai avviata a conclusione, non solo gli Stati Uniti, ma il mondo intero, sembrano per molti versi vivere una situazione di stand-by che rende ancora più complesso il quadro e più opache le prospettive.
Un elemento costante, invece, è purtroppo rappresentato dal fatto che in tutto questo il nostro Governo continua ad essere inerte, per non dire assente. Rispetto alla guerra russo-ucraina, al Medio Oriente e più in generale sulla scena internazionale non ha ruolo, non ha peso, sembra essere condannato perennemente alla passività.
Eppure dovremmo onorare la presidenza del G7 con un ruolo se non decisivo, almeno propositivo, di stimolo. Invece, al di là della passerella a Borgo Egnazia, nulla.
Con la premier che sembra appagata dalle foto di rito, oltreoceano e sorridente, insieme ad Elon Musk.
La realtà è quella di aver fatto pagare un prezzo all’Italia sul piano della rappresentanza nelle istituzioni europee, perché è innegabile che le deleghe all’interno della Commissione a Fitto hanno meno peso di quanto non ne abbia avuto Paolo Gentiloni come Commissario agli affari economici e monetari.
Fitto che peraltro dovrà fugare in corso di audizione tutti i dubbi che accompagnano la sua nomina. Certo le premesse non sono delle migliori, considerando come ha gestito il PNRR in Italia. Ad ogni modo lo ascolteremo e vedremo se nelle indicazioni programmatiche riuscirà a chiarire i punti del suo mandato e soprattutto a prendere effettivamente le distanze da quelle pulsioni antieuropeiste che hanno portato il suo gruppo di riferimento, quello dei conservatori, a non votare per la Von dei Leyen.
E comunque, tornando alla premier, sono ormai evidenti le perplessità che attira su di sé, tra i principali partner, per le sue sempre più avvertibili titubanze sull’Ucraina.
È palese, ancora una volta, la sua tendenza a recitare due parti in commedia: il tentativo di mostrarsi affidabile e “atlantista” e al tempo stesso, la preoccupazione di non farsi scavalcare a destra da sovranisti e nazional-populisti vari, specie quello che ha in casa, a fianco a sé, al governo.
E così, in questo cinico e sterile gioco dei “due forni”, il risultato finale è che a prevalere sono i suoi interessi “militanti”, quelli della sua parte politica, rispetto agli interessi del Paese.
Paese al cui interno, invece, il volto mostrato da questa destra continua ad essere uno solo.
Quello chiuso, illiberale e improduttivo di un governo che dopo quasi due anni esatti di attività dimostra ogni giorno di più che si pone di fronte ai problemi per cavalcarli, non per affrontarli offrendo soluzioni.
Quello di una maggioranza che si regge esclusivamente sulla gestione del potere, per rispondere ai propri esclusivi interessi.
Per quanto i sondaggi evidenzino ancora una tenuta della premier, è questa la realtà: una debolezza politica di fondo del governo e divisioni più profonde di quello che si vuole far credere tra le forze politiche di maggioranza.
Il problema è che il prezzo di tutto questo lo paga il Paese, lo pagano gli italiani.
Guardiamo una delle ultime “imprese” del governo, il cosiddetto disegno di legge “sicurezza”: un provvedimento assurdo, completamente inutile per quanto riguarda l’obiettivo di garantire maggiore sicurezza e allo stesso tempo gravemente lesivo delle libertà personali. Mentre la manifestazione di sabato scorso a Mestre in memoria di Jack, ucciso mentre cercava di aiutare una donna vittima di rapina, ci ha ricordato che la sicurezza non è data dalla sola repressione, ma da interventi diversi, a cominciare da quello sociale.
E invece, sulla scia di un’azione volta a delegittimare la magistratura, ad attaccare la stampa critica, ad eliminare i contrappesi istituzionali, il governo afferma l’idea di un vero e proprio populismo penale, con la criminalizzazione della contestazione politica e del dissenso, arrivando a punire persino la resistenza passiva, pacifica e non violenta.
Contro questo provvedimento il Partito democratico si è fortemente battuto e continueremo a farlo anche in Senato.
Perché lo consideriamo molto pericoloso rispetto alle garanzie costituzionali di questo Paese.
E perché è insopportabile che tutto ciò è stato fatto – innestando peraltro una incredibile campagna di comunicazione aggressiva anche nei nostri confronti – per accarezzare la pancia securitaria dell’elettorato e distrarre dai fallimenti rispetto ai problemi veri.
Il lavoro. L’ultimo provvedimento del governo, il cosiddetto “collegato” lavoro, è un insieme di misure marginali senza alcuna visione e persino pericolose, perché vanno nella direzione opposta rispetto a quella che si dovrebbe prendere: si liberalizza ulteriormente il lavoro in somministrazione, si allargano le maglie della stagionalità e si apre un varco grave nella legge – una conquista di civiltà – che vieta le dimissioni in bianco.
Mentre nulla si fa rispetto alle tutele dei lavoratori e alla questione salariale. E nemmeno si vedono fenomeni strutturali come quello legato a un tema che ho ripreso anche nella Newsletter: una vera e propria “glaciazione demografica” che non è solo questione di costumi che cambiano, ma soprattutto di inefficienze pubbliche.
Se tanti giovani, anche qualificati, sono costretti a lasciare il Paese e anche la nostra regione, qualche domanda bisogna pur porsela.
Se perdiamo Intel o Silicon Box come investimenti, e se la ZLS tarda a svilupparsi, è chiaro che molti ingegneri informatici sono costretti ad andare dove c’è lavoro. A dimostrazione dei fallimenti di Zaia.
È un nodo che impone una scelta, un obbligo, alla parte pubblica: supportare innovazione e sviluppo anche nel manifatturiero, perché dobbiamo dare sbocchi anche ai profili molto qualificati.
Poi, certo, c’è una questione casa, un problema abitativo legato al caro alloggi. Molto spesso medici, infermieri, insegnanti o anche vincitori di concorsi pubblici presso Inps o Inail rinunciano al posto, perché con gli stipendi che prenderebbero non potrebbero sostenere il costo di un affitto.
Serve quindi una politica per la casa strettamente collegata al lavoro.
Così come sulle politiche industriali serve una governance dei processi di cui invece non si vede nemmeno l’ombra.
Non c’è la minima visione di cosa sono e di dove devono andare il nostro manifatturiero, il nostro artigianato di qualità, la nostra filiera agroalimentare.
Nessuna indicazione su come il comparto chimico intende reggere la competizione del futuro, su come la nostra siderurgia debba procedere lungo la strada della decarbonizzazione, su quali sono i suoi impatti sociali e su quanta manodopera rischiamo di perdere, su come muoversi nel campo delle telecomunicazioni e di fronte alla sfida dell’intelligenza artificiale, con i suoi enormi impatti sui processi produttivi.
Si preferisce far finta di non vedere, ma i problemi incombono ed è indispensabile affrontarli prima che esplodano.
E se guardiamo al Veneto, già ora non c’è un solo dossier, in questo campo, che può dirsi concluso positivamente.
Ci sono crisi aziendali prive di qualsiasi prospettiva positiva. Eni ha appena rinnovato le deleghe ma non c’è nessuna interlocuzione per il Polo di Marghera.
Sul supporto al manifatturiero dal Ministro Urso ascoltiamo solo parole, dal Liceo del Made in Italy ai presunti incentivi per le imprese, dopo di che né industriali né sindacati hanno visto una sola misura reale e concreta a sostegno della competitività del nostro sistema produttivo.
Stesso discorso, a proposito di concretezza, riguardo alla sanità pubblica: c’è un vero e proprio accanimento che dura ormai da due anni.
Solo tagli effettivi – perché il calcolo va fatto rispetto al Pil, non in cifre assolute – e un solo intervento, sulle liste d’attesa, fatto guarda caso a ridosso delle elezioni europee, con un decreto-legge episodico, inconsistente e del tutto inadeguato a risolvere il gigantesco problema di 10 milioni di prestazioni inevase, a dare risposta a 4 milioni di persone che oggi sono costrette a rinunciare alle cure.
Conosciamo bene le preoccupazioni dei cittadini Veneti e degli stessi operatori. Anche sabato scorso, c’è stata una grande e partecipata manifestazione, su questo tema, a Verona. Serve investire.
Vedremo cosa faranno in legge di bilancio ma avvertiamo la mancanza di presa del governo nazionale e regionale su un tema cruciale.
Noi abbiamo chiesto due cose chiare e fondamentali: aumentare gradualmente le risorse destinate alla Sanità pubblica, fino a raggiungere la media europea del 7,5% del Pil, ed eliminare il tetto di spesa per il personale fissato nel 2009 dal Governo Berlusconi, di cui tutte le forze dell’attuale maggioranza facevano parte, compresa l’allora Ministra Giorgia Meloni.
Così, e solo così, si può promuovere un grande piano di assunzioni di medici, infermieri e tecnici necessari per abbattere le liste d’attesa e rilanciare il Sistema sanitario nazionale, investendo innanzitutto nella sanità territoriale.
Il resto è solo propaganda.
Esercizio al quale gli esponenti del governo si prestano con particolare convinzione, in mancanza di soluzioni concrete.
Così come sulla scuola. Peccato che la realtà dica altro. L’Ocse è stata molto chiara: siamo il Paese che investe meno in istruzione, e questo lo paghiamo anche in termini di competitività.
Da poche settimane è iniziato il nuovo anno scolastico. A studenti, insegnanti e personale ATA va il nostro augurio di buon lavoro. Soprattutto perché dovranno svolgerlo in un clima ideologico, segnato dall’impostazione del ministro Valditara, che mortifica la missione della scuola, che la riporta indietro nel tempo, in una visione vecchia e statica.
Quando invece, come ha detto il Capo dello Stato, “la scuola è movimento. Non si ferma. È una strada su cui camminare insieme, giovani e adulti”.
È così. La scuola è centrale nel progetto di crescita della società. Ha bisogno di risorse economiche e umane, ha bisogno di investire sulla figura sociale dell’insegnante e di coinvolgere l’intera comunità educante. C’è da migliorare molto nell’orientamento, per aiutare i ragazzi a scoprire le proprie vocazioni e i propri talenti. Serve un raccordo migliore anche con il mondo del lavoro.
Tutte cose che questo governo, da quando si è insediato, non ha minimamente fatto. Quello che si sta spendendo per edilizia, asili e rinnovo dei contratti viene dal PNRR, che è stato ereditato. Per il resto, nemmeno un euro.
E le prospettive immediate, a proposito di risorse, non inducono certo all’ottimismo, considerando le dichiarazioni del Ministro Giorgetti a proposito del Piano strutturale di medio termine che le nuove regole di bilancio introdotte con la riforma del Patto di stabilità europeo impongono ai Paesi, come il nostro, entrati in infrazione.
Patto di stabilità europeo, ricordiamolo sempre, negoziato al ribasso anche per colpa dell’inerzia dell’Italia.
Sta di fatto che non c’è da sperare molto, sinceramente, da una Manovra di bilancio che di sicuro non avrà forza, non sarà espansiva, e che vedrà aumentare la pressione fiscale e calare il potere d’acquisto delle famiglie e che al momento è un insieme di pagine bianche sulle quali di tanto in tanto appaiono dichiarazioni scritte con inchiostro simpatico e in totale libertà su pensioni, tagli alle detrazioni, razionalizzazioni, privatizzazioni e via di seguito.
Con una faciloneria e alla fine con una confusione che non può non alimentare ansie e incertezza tra cittadini e imprese.
Non sono mancate notizie che per quanto ovattate, sono preoccupanti.
Quando l’Amministratore delegato di Poste sostiene che si sta per rinunciare al servizio universale, il pensiero va al servizio postale delle nostre montagne e delle nostre aree di provincia già estremamente penalizzate.
Quando Ferrovie annuncia privatizzazioni, penso alle tratte dei nostri pendolari, studenti e lavoratori che vedranno i costi aumentare.
Sono annunci che magari potrà sembrare non debbano mai concretizzarsi, invece potrebbe essere così, più di quanto non si pensi.
Ho fatto due esempi di partecipazioni pubbliche in cui è ben chiara la strategia di questo governo, e dove la necessità di fare cassa fa venire meno l’essenza stessa del principio di partecipazione pubblica.
Se poi tutto questo lo caliamo nella realtà del Veneto, non possiamo che constatare quanto sia grande la distanza con le esigenze dei nostri territori.
La verità è che tra il Nordest e il governo centrale si sta aprendo una faglia a coprire la quale non basta il protagonismo esclusivamente dichiarativo di Zaia.
Certo nessun vantaggio potremo trarre dalle due riforme che fin qui sono andate a braccetto, in uno scambio tanto evidente quanto scellerato: premierato, al momento messo in soffitta aspettando tempi migliori, e autonomia, a proposito della quale non si può fare a meno di notare un certo “incartamento” all’interno della maggioranza.
Sì, sono incartati sulla definizione dei LEP, sulle procedure di applicazione della legge, sulle risorse finanziare a disposizione. A dimostrazione che questa legge Calderoli non regge dal punto di vista giuridico ed economico, e rischia non solo di allargare i divari territoriali su servizi sociali essenziali come sanità e istruzione, ma anche di produrre un’assurda frammentazione normativa.
Darò la parola, su questo punto, dopo questa mia relazione a Ivo Rossi, responsabile regionale per l’autonomia, che vi illustrerà un documento che abbiamo elaborato con le segreterie regionali della Lombardia e del Piemonte e che intendiamo presentare alle nostre assemblee regionali in una riunione congiunta che si terrà a Brescia sabato 19 ottobre. L’obiettivo è quello di dimostrare che questa autonomia di Calderoli e di Zaia non regge, non è utile nemmeno per i cittadini e le imprese del nord e che si è trasformata da terra promessa in un vero e proprio caos normativo e burocratico ingestibile. La raccolta delle firme per il referendum abrogativo, dopo aver presentato proposte alternative e provato a emendare, migliorare, correggere quel testo, ci è sembrato l’unico modo per impedirne la realizzazione e per avviare, nel Paese, la discussione attorno ad un diverso modello di autonomia, quella autonomia responsabile, equilibrata e federativa a cui abbiamo sempre pensato senza compromettere l’unità del nostro Paese. Come sapete le firme sono state consegnate in Cassazione e il prossimo 15 novembre verranno discussi i ricorsi presentati dalle varie regioni.
E a proposito di referendum, la raccolta delle firme per quello sulla cittadinanza è per molti versi emblematica.
In pochi giorni e online sono state raccolte 500 mila firme. Un risultato straordinario.
Nel merito, perché si tratta della battaglia per una conquista di civiltà. E poi per il clima che si respira, per la presenza viva di un “humus culturale” importante a cui dobbiamo prestare grande attenzione.
La società è più avanti di questa destra. I cittadini dimostrano di non essere rassegnati al modo ideologico con cui il governo affronta questioni decisive per il futuro del Paese.
Dobbiamo fare in modo di non vanificare questa mobilitazione, di non deludere aspettative così grandi.
E poi guardate, il punto fondamentale è che in tutti i temi che ho provato velocemente a toccare – ed altri ce ne sarebbero e ce ne sono – c’è anche la chiave per costruire concretamente l’alternativa a questo disastroso e pericoloso governo.
Un’alternativa che non può non avere come perno il PD.
Ma non tanto per i numeri, per i cosiddetti rapporti di forza rispetto alle altre opposizioni. Piuttosto perché siamo gli unici ad avere una visione complessiva della società.
Certo, è vero che per il centrosinistra il percorso della costruzione di una coalizione percepita come concreta alternativa da parte dei cittadini, come ha giustamente osservato Romano Prodi, è ancora tutto in salita.
Ed è vero che non mancano impuntature e frizioni, e anche tensioni, come da ultimo la partita in Liguria o anche la vicenda Rai ci sta dicendo. Mi riferisco anche alle ultime prese di posizione del leader dei 5stelle, evidentemente alle prese con un dibattito interno che influenza anche le sue esternazioni, dichiarazioni sicuramente sbagliate anche nei nostri confronti, ma io penso che il nostro compito sia ragionare nel medio e lungo periodo non dando troppo peso a queste nuvole passeggere legate al contingente. Rimaniamo concentrati sulle prossime elezioni regionali che si incaricheranno anche di fare chiarezza.
Ma è altrettanto vero che se c’è un modo per tener fede al compito, all’onere che noi prima di tutti abbiamo, quello di dare al Paese una possibile alternativa, la strada da seguire non è quella delle formule e delle alchimie politiche, non è quella delle alleanze costruite “in vitro”: è quella di stare sui temi concreti dai quali dipendono le condizioni e le prospettive del Paese, è quella delle risposte da dare ai problemi veri delle persone, dei lavoratori, delle famiglie italiane e di questa nostra regione.
Solo sulla questa base – come siamo riusciti a fare sul salario minimo o proprio sull’autonomia differenziata – la volontà di essere “testardamente unitari”, come giustamente la Segretaria Schlein sostiene dobbiamo essere, potrà condurre all’obiettivo.
È questo il terreno fertile su cui lavorare. Di certo sarà un autunno intenso. Cominceremo a vedere se i frutti del lavoro arriveranno con le elezioni in tre importanti regioni come Liguria, Umbria ed Emilia-Romagna.
E molto presto toccherà a noi, in Veneto.
La data non è stata ancora definita, ma è abbastanza probabile che le prossime elezioni regionali si svolgano nell’autunno del 2025.
Il tentativo della Lega, o forse a questo punto è meglio dire del solo Zaia, di puntare ad avere un terzo mandato – nel suo caso, poi, sarebbe il quarto – è ancora in corso, ma è difficile vada in porto, dopo la votazione dei mesi scorsi in Parlamento.
Io non posso che ribadire quanto ho già detto altre volte: in Veneto si è ormai esaurita una lunga fase politica e amministrativa, durata trent’anni.
Ne sono prova le tensioni e le divisioni all’interno della maggioranza, che continuano ad essere all’ordine del giorno e rendono sempre più evidente le difficoltà di Zaia e della sua compagine nell’affrontare e risolvere i problemi concreti.
La stessa narrazione, durata per tantissimo tempo, del Veneto come zona “Tax Free”, si è scontrata con la realtà: Zaia è stato costretto ad aumentare l’Irap per far fronte alle esigenze del prossimo bilancio e soprattutto per provare a coprire il buco creato per la Pedemontana veneta.
E che oggi – alla faccia dell’autonomia, viene da dire – vorrebbe trasferire, con tutti i costi e il rischio di impresa, allo Stato, utilizzando come veicolo la prossima Legge annuale sulla concorrenza.
La verità, a proposito del prossimo bilancio, è che scarseggiano tanto le risorse quanto le idee. Manca un pensiero strategico sul futuro del Veneto, non sanno come accompagnare le imprese sulla via delle transizioni ecologiche e digitali, come avviare una nuova fase di sviluppo.
Con un tallone d’Achille sempre più evidente: la riduzione della capacità attrattiva del Veneto nei confronti delle imprese e dei giovani.
Dati incontrovertibili dimostrano che nel corso di questi anni, la nostra regione ha perso molte posizioni con riguardo alla filiera agroindustriale e al sistema bancario, così come nel campo delle Multiutility o in quelle delle fiere espositive e commerciali.
La stessa enfasi sull’autonomia da parte del Presidente della regione serve soprattutto a coprire un deficit politico ormai evidente, agitando in modo propagandistico l’ultima bandiera a disposizione.
Le cittadine e i cittadini veneti, le nostre imprese, non meritano tutto questo.
È per loro che dobbiamo impegnarci nella costruzione di una proposta alternativa in grado di farsi governo della regione.
Per combattere le diseguaglianze e per spingere la crescita.
Per sostenere chi vive nel disagio e al tempo stesso per stringere rapporti più stretti con le forze economiche e sociali.
Come sapete, abbiamo costituito un tavolo della coalizione di centrosinistra che si è già riunito due volte e che si ritroverà nuovamente la prossima settimana.
Oltre a noi ne fanno parte l’Alleanza Verdi e Sinistra, il Movimento Cinque Stelle, Il Veneto che vogliamo, +Europa, Volt, il Partito socialista italiano e varie formazioni civiche.
E nonostante non abbiano partecipato alle riunioni, abbiamo un’interlocuzione positiva e un dialogo costante sia con Italia Viva sia con Azione. Anche se naturalmente siamo ben consapevoli che al loro interno, così come nel campo dei Cinque Stelle, è in corso una discussione di non poco conto.
Abbiamo deciso di avviare un primo confronto programmatico attorno ad alcuni questioni fondamentali. Non si tratta ancora del programma, ma è il messaggio che vogliamo lanciare: precise proposte su giovani, sanità e sociale, lavoro e impresa, sostenibilità ambientale ed energia, mobilità e trasporti per studenti e pendolari.
L’intento è quello di costruire, da qui alla fine dell’anno, una prima base programmatica comune, sulla quale poter svolgere quelle che abbiamo definito “primarie tematiche”: una consultazione con i cittadini del Veneto intorno alle nostre proposte principali.
Mi sembra un ottimo modo di raccogliere idee ed energie, di far emergere disponibilità ed impegno.
Dobbiamo essere capaci di agire su tutti i piani decisivi per oggi e per domani.
A partire dal lavoro, rendendolo più sicuro e stabile, con politiche che permettano l’ingresso nel mercato del lavoro di giovani e donne.
E ancora, la crisi climatica: le recenti criticità dovute al maltempo in Veneto, che hanno creato apprensione in tutte le nostre province, dimostrano ancora una volta che la regione purtroppo è impreparata e che occorre definire un piano regionale integrato e aggiornato, che metta nero su bianco una nuova politica di gestione territoriale, all’altezza delle conseguenze dei cambiamenti climatici e dei problemi legati al dissesto idrogeologico e al consumo del suolo. Investendo sulla sostenibilità sulle fonti rinnovabili e sulla tutela del nostro territorio.
Dobbiamo sapere, poi, che su welfare e Stato sociale si gioca una parte importante della competitività del nostro sistema territoriale.
Così come non sono più eludibili le grandi questioni che riguardano la gestione efficace dei flussi migratori e la crisi demografica, che non si può affrontare in maniera ideologica, ma con politiche incisive ed efficaci.
Abbiamo inoltre deciso che a questo primo percorso programmatico seguirà la fase in cui dovremo discutere del profilo delle possibili candidature, con l’impegno da parte di tutti che questo avvenga con tempistiche ragionevoli e adeguate, per affrontare una campagna elettorale che sarà molto impegnativa e che richiede di fare scelte giuste e per tempo.
Abbiamo anche discusso delle primarie relative alle candidature, ritrovandoci attorno all’idea comune che non si tratta di una scelta a prescindere, ma di uno strumento prezioso a nostra disposizione, che valuteremo se utilizzare, al momento opportuno.
È superfluo ricordare che le primarie sono regolamentate dall’articolo 24 del nostro Statuto, articolo che vi invito a rileggere e che disciplina anche il caso in cui le primarie non si svolgano o si possano non svolgere.
E del tutto ovvio, come molti osservano, che dobbiamo fare il più presto possibile. Chi non è d’accordo?
Ma per poter fare la scelta giusta bisogna innanzitutto che decidiamo il perimetro della nostra alleanza, che decidiamo chi siamo e che cosa vogliamo fare. E da qui, chi può rappresentarci al meglio. Chi dovrà essere il candidato più in grado di unire e potenzialmente più vincente.
È del tutto evidente che dobbiamo evitare fughe in avanti.
Abbiamo bisogno per prima cosa di un programma comune e direi, soprattutto, di una visione comune.
Non si va lontano con una mera aggregazione attorno ad un nome.
Quello che ci serve è innanzitutto un’alleanza politica, un progetto. Più che di un campo, abbiamo bisogno di progetto.
Meglio ancora: una grande visione, che porti dentro di sé temi ideali, prospettive e obiettivi. Fondata sul sentirsi dichiaratamente e convintamente da una stessa parte.
L’ambizione che dobbiamo avere è far sì che il Pd non solo contribuisca in maniera determinante alla definizione di un programma, ma sia anche il soggetto capace di unire tutti i democratici, i riformisti, le forze di sinistra, i cattolici, gli ambientalisti, i progressisti, i tanti movimenti civici radicati nel territorio, senza tralasciare quelle forze moderate liberali che si possono ritrovare in una proposta programmatica aperta e costruttiva.
Deve essere chiaro che qui in Veneto, mai come adesso, l’unico argine possibile alle destre è quello che mette assieme, sulla base di un progetto comune, le forze politiche e sociali che sono all’opposizione di questo governo.
Dobbiamo quindi proseguire nel lavoro di costruzione della nostra alternativa, partendo dai contenuti e dalle priorità della regione, e continuando innanzitutto con il lavoro di opposizione che stiamo portando avanti in Consiglio regionale.
Dobbiamo farlo con la nostra identità, con la capacità di interloquire con la società veneta e di far sentire che siamo dalla parte dei veneti.
Come ho già detto, la destra non è imbattibile.
L’impegno delle forze di centrosinistra e del Partito Democratico deve essere quello di superare divisioni inutili e competizioni interne, praticando quell’unità che la nostra gente chiede.
Di fronte a noi ci sono mesi molto intensi e di grande lavoro, per definire un progetto che abbia un’anima, che sappia creare una suggestione nella comunità veneta.
So che si tratta di un’impresa straordinaria.
Difficile, certo, ma anche appassionante.
Io sono fiducioso: con il lavoro di tutti potremo farcela.
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